L’incertezza dei mercati non deriva solo dai timori sull’inflazione. No, dipende anche dalla calante solidità degli emittenti di titoli di Stato. Dieci consigli per gestire al meglio uno dei motivi di preoccupazione futura per chi amministra il denaro proprio o di altri.
Il report della domenica
C’è un fattore contingente e c’è un fattore strutturale a determinare la persistente debolezza dei titoli di Stato di quasi tutto il mondo, che non reagiscono positivamente alle notizie - seppur incerte - di tagli dei tassi annunciati, soprattutto nei Paesi occidentali. Certamente fanno un po' paura le previsioni di un possibile nuovo surriscaldamento dell’inflazione – seppur limitato rispetto a quello recente – e le perplessità sugli esiti delle elezioni presidenziali Usa. Sui tavoli degli operatori professionali circolano però dei grafici di altra natura che provocano ansie ben maggiori. Si riferiscono ai debiti pubblici e quindi alla solidità o meno degli emittenti governativi.
Quattro nomi preoccupano
Vediamoli questi grafici, nemmeno dissimulati dai gestori dei grandi patrimoni mondiali. In estrema sintesi confrontano gli andamenti dei debiti di quasi tutti i Paesi del mondo con tantissimi altri parametri. Quattro nomi si collocano in testa alla classifica relativamente al peggiore rapporto con i relativi Pil:
1) |
Giappone |
255,2% |
Rating A+ |
2) |
Italia |
143,4% |
Rating BBB |
3) |
Stati Uniti |
122,3% |
Rating AA+ |
4) |
Francia |
110,6% |
Rating AA- |
Questi numeri sono realmente preoccupanti? Solo una parte degli esperti li guarda in effetti con totale apprensione, sostenendo che in realtà nascondono verità, che se analizzate in altro modo, relativizzano il peso dei debiti: si chiamano prevalente loro detenzione da parte dei cittadini del singolo Paese (è il caso del Giappone), forte presenza di fondi pensione con ottiche di lungo periodo (è il caso degli Usa) e parallela costante eccedenza positiva dei patrimoni detenuti dai privati (è il caso dell’Italia).
Tutto meglio quindi di quanto si possa credere? No. Lasciando stare che i metodi di valutazione delle agenzie di rating appaiono ormai poco realistici, ci sono mille altri aspetti che preoccupano. Ne citiamo quattro, pescati qua e là.
● Nella classifica dei rapporti debiti/Pil il Libano (in default nel 2020 e che applica tassi al 20%) è di poco sopra il Giappone. D’accordo confrontare Beirut con Tokyo è davvero poco realistico in termini di potere economico ma…
● Da qualche tempo ha scalato in maniera inattesa la graduatoria un Paese come Singapore, considerato in passato vera e propria cassaforte mondiale.
● Gli Stati Uniti sono agli stessi livelli di debito/pil di Cuba, Capo Verde e Sri-Lanka, che godono però di ben maggiori libertà d’azione rispetto a quanto non può fare Washington.
● In fondo all’elenco (e quindi da considerare affidabili) si piazzano Paesi i cui bilanci pubblici sono certamente gestiti in maniera quanto meno oscura e di cui c’è proprio poco di cui avere fiducia.
Potremmo proseguire con tante altre considerazioni che però trascuriamo per non tediare il lettore. In sintesi pochi Stati al mondo vanno considerati sani da questo punto di vista. Sono Australia, Danimarca, Germania, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Svezia e Svizzera, che riescono a restare nel ristretto club degli emittenti con rating AAA, ma che in certi casi quotano piccole emissioni, quasi poi del tutto illiquide sul secondario.
Come cercano allora di salvarsi i grandi debitori pubblici? Con svalutazioni valutarie più o meno striscianti ma soprattutto seguendo l’esempio del Giappone, che è stato il primo ad attuare un “quantitative easing” (riacquisto di titoli sovrani da parte della Banca Centrale), a controllare la “curva dei rendimenti” e ad azzerare i tassi di interesse di breve termine. Tokyo è stata un pioniere in tale percorso. Poi hanno cominciato a imitarla Stati Uniti ed Europa. Tutto questo porterà a una lenta svalutazione globale e sincronizzata delle principali valute.
Intanto i grandi detentori di debito pubblico – ovvero gli istituzionali – si troveranno costretti ad alleggerire le posizioni in portafoglio, mentre per i piccoli investitori – noi uomini della strada – le alternative risulteranno davvero poche. C’è chi ritiene che saranno gli stessi emittenti a sostenere la volatilità dei mercati, allo scopo di incrementare gli scambi e quindi i conseguenti flussi fiscali. Si tratta però di un’interpretazione poco credibile. Anche perché i titoli di Stato – salvo quelli della lista a rating AAA - diventeranno sempre più carta a rischio, da cui si allontaneranno gestori di fondi pensione e colleghi vari.
Dieci consigli per non sbagliare
Che fare allora in un contesto che – salvo improvvise svolte rigoriste da parte dei Governi – è destinato a indebolire il fronte obbligazionario? Valutiamo alcune ipotesi fra le più suggerite.
1) |
La concentrazione dei portafogli su uno o pochi emittenti è il rischio maggiore |
2) |
La gestione e la diversificazione delle valute saranno importanti per la creazione di performance ma richiederanno perizia nell’individuazione delle ciclicità |
3) |
Un bilanciamento fra Paesi sviluppati e Paesi cosiddetti emergenti (in realtà in molti casi ultra sviluppati pure loro) diventerà fondamentale per creare reddito. L’indebitamento in crescita di Usa e parte d’Europa debiliterà infatti i relativi titoli di Stato, oltre quanto non si pensi oggi |
4) |
Le curve dei rendimenti tenderanno a muoversi più di quanto non sia avvenuto in passato, imponendo di puntare via via su tratti diversi dei loro andamenti |
5) |
Gli yield resteranno importanti nella valutazione da parte dei singoli investitori ma anche le “duration” andranno attentamente esaminate, in base alla propensione al rischio |
6) |
Ci saranno ancora i paladini della solidità a tutti i costi? In altre parole la Germania manterrà la tripla A? Qualche dubbio comincia a farsi strada |
7) |
Il 2024 ha dimostrato che le quotazioni dei bond high yield e corporate europei e Usa hanno reagito meglio al taglio dei tassi rispetto ai titoli di Stato. Guai a non tenere conto di questa verità |
8) |
Le agenzie di rating – per il modo in cui operano – stanno perdendo credibilità. In alcuni casi si notano incomprensibili discrepanze nei loro giudizi |
9) |
Ci sono tre variabili che peggioreranno il quadro generale: le spese per la difesa, la drammatica emergenza climatica e le sfide demografiche. Potrebbero avere un effetto molto negativo sulla tenuta dei conti pubblici di molti Paesi del mondo |
10) |
Nella scelta dei titoli meglio preferire oggi scadenze non troppo lunghe e comunque non oltre i dieci anni |
In conclusione c’è una verità che sta facendosi strada per chi gestisce i propri soldi o i soldi degli altri. Le obbligazioni stanno perdendo parte del loro ruolo di asset protettivi a favore di nuovi beni rifugio. Questo però è un altro aspetto del problema.
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