Lo scorso giovedì è andata in scena la riunione della Bce, con l’annuncio del primo rialzo dei tassi di 25 bps previsto per luglio. Intanto sono anche usciti i dati sull’inflazione USA, per nulla buoni, visto il salto a +8,6% cioè i massimi dal 1981. La somma di questi fattori ha fatto sì che il dollaro riprendesse a correre di gran carriera contro euro e che in Europa le Borse e le obbligazioni cadessero a picco, senza contare il decollo dello spread per quanto ci riguarda.
Quindi, a giudicare dalla reazione dei mercati, pare proprio che questi non nutrano più nessuna fiducia nei confronti di Lagarde. Poi, per quanto riguarda l’Italia già si inizia a leggere su alcuna stampa che lo spread stia mettendo in luce tutti quelli che vengono considerati i passi falsi e le “bugie” di Draghi da quando è alla guida del nostro Paese.
Partiamo dalla Bce, e non possiamo negare che non è stato un successo neppure stavolta per la Lagarde. Per carità, non siamo minimamente vicini ai livelli di sfiducia e panico segnalati dal mercato dopo l’infausta riunione del board del 12 marzo 2020 (“non siamo qui a chiudere gli spread”), ma il flop è evidente. In sisntesi, giovedì scorso, la Bce ha deciso e comunicato i seguenti punti di svolta della politica monetaria:
- stop agli acquisti dei bond con il “quantitative easing” (QE) da fine giugno;
- rialzo dei tassi a luglio dello 0,25% e possibilmente dello 0,50% a settembre;
- uso della flessibilità in fase di riacquisto dei bond con il PEPP per ridurre la frammentazione dei mercati.
Sui primi due punti nessuna novità, e infatti il mercato aveva scontato sia il rialzo dei tassi a luglio, sia l’uscita dalla lunga era dei tassi negativi a settembre, così come l’ormai inevitabile fine del QE. Poi, a ben gurdare, anche il terzo punto è stato una vera novità, tuttavia è stato molto probabilmente la causa della reazione negativa di bond, Borse, con lo spread salito immediatamente sopra i 220 bps.
In base ad alcune indiscrezioni circolate nei giorni precedenti il board della Bce, il mercato sperava e forse un po’ si aspettava un annuncio in merito a qualche piano per restringere gli spread nell’Eurozona. Ovviamente l’annuncio non c’è stato. Sostanzialmente, Lagarde si è presentata in conferenza stampa con le solite parole vuote, perché i fatti dimostrano che i Btp ormai offrono rendimenti di oltre il 2% in più rispetto ai Bund e la Bce pensa che non sia necessario agire per ridurre tali distanze.
La storia è sempre la stessa e non cambierà mai: a parte la patologica farraginosità e lentezza dei processi decisionali in Europa, non ci potrà mai essere accordo politico che autorizzi la Bce a contrastare gli spread. Un accoro impossibile, posto che la Germania non si fida e mai si fiderà dell’Italia, per cui la Bundesbank continuerà ad opporsi a qualunque meccanismo di sostegno automatico, preferendo subordinarlo a una sorta di “commissariamento” del governo italiano sulle riforme.
Il problema spread, tuttavia, oggi è ben diverso e ben più pericoloso rispetto al passato. Infatti, ora come ora, a rischiare non sarà soltanto il debito pubblico italiano, quanto la stabilità economico-finanziaria di tutta l’Eurozona. Basta ricordare cosa successe nel 2011 con l’incauta manovra della Bce di Jean-Claude Trichet che fece esplodere gli spread nel Sud Europa. Poi Draghi in qualche modo rimise le cose a posto abbassando i tassi, ma all’epoca l’inflazione non era un problema.
La situazione, quindi, è tesa ed è normale che tutti gli asset finanziari siano in sofferenza. E, francamente, non si intravedono possibilità di miglioramento a breve termine. Inutile girare intorno alle questioni: si è aperta la fase di contrazione economica, aggravata da inflazione alle stelle, Banche Centrali in ritardo nell’agire per contenere il livello dei prezzi, una guerra che continua ad incombere e quindi siamo dentro ad un trend ribassista, che piaccia o no.
Per cui, dovremmo sopportare volatilità negativa ancora per un bel po’ di tempo ed è chiaro che di fare acquisti sui mercati non se ne può parlare perché mancano qualunque tipo di premessa. E quindi, tornando al nostro portafoglio, all’ultimo close disponibile, valorizziamo un NAV a 104,75 in calo rispetto al precedente 105,32. Rimaniamo quindi nel trading range in cui siamo ingabbiati da novembre 2021, dopo aver portato a casa il grosso degli utili sino a quel momento conseguiti.
La performance storica su base annua è ovviamente in arretramento al +2,18% rispetto al +2,53% della scorsa valorizzazione. Inevitabile l’aumento della volatilità totale, ora all’1,74% così come quella negativa che ora si è portata all’1,02%.
L’equilibrio del portafoglio, grazie all’abbondante liquidità che ci teniamo bella stretta, rimane compatibile con un rischio ridotto ai minimi termini, nel pieno rispetto della vocazione del nostro Rischio Contenuto.
Portafoglio ed equity line aggiornati nell’apposita sezione.