Se non fosse una questione seria, scapperebbe da ridere, e andando avanti nella lettura capirete perché. Solo la settimana scorsa rendevamo conto su queste colonne dell’isolamento di Draghi e della protervia della Germania; oggi invece rendiamo conto della mossa a sorpresa e con carattere di urgenza messa in atto dalla FED con l’attivazione di un nuovo QE.
QE che è partito venerdì scorso, senza nemmeno attendere il board della Banca Centrale, per un valore di 60 Mld USD al mese almeno fino a giugno 2020. Perché Powell ha fatto questo? La giustificazione ufficiale è di “riportare il bilancio delle riserve su un livello ampio o comunque pari almeno a quello precedente al settembre 2019”. E va bene, ma cos’è successo di così grave da richiedere alla FED un intervento urgente?
Semplice, nelle ultime settimane le banche USA si trovano a corto di liquidità, non trovando sul mercato fondi immediatamente disponibili a sufficienza. Insomma, si prestano molto meno denaro, tant’è che la Fed è dovuta intervenire più volte a settembre per impedire l’esplosione dei tassi, passati dal 2% al 10%. E quindi, a cascata sorge spontanea una seconda domanda. A cosa è dovuta questa carenza di liquidità?
Naturalmente sono molteplici le cause concomitanti – scadenze fiscali, emissioni abbondanti di titoli governativi, l’iper-regolamentazione finanziaria dell’era Obama – ma su tutto regna un dato: i mercati non riescono più a fare a meno delle Banche Centrali. Di fatto, appena la FED ha cercato di uscire dall’era del denaro facile e la BCE ha smesso di iniettarlo sono arrivati i guai.
Va da sé che la situazione è più seria di come ce la stanno vendendo, e indirettamente lo conferma la FED stessa poiché pare che abbia intenzione di ammorbidire la regolamentazione a carico delle banche straniere operanti negli USA, alle quali si starebbe pensando di richiedere criteri di liquidità meno stringenti. Altra domanda: da dove nasce così tanto altruismo verso le banche straniere?
Ce lo spiega un grafico del Financial Times, dove balza all’occhio che al 30 giugno scorso la banca non americana maggiormente esposta negli USA per assets fosse Deutsche Bank, seguita dalla giapponese Sumitomo. E che la tedesca abbia più di un problema lo sanno anche le pietre da tempo, tant’è che sta per mandare a casa circa un quinto del suo personale, tra cui 9.000 dipendenti nella stessa Germania, la metà dei 18.000 in tutto.
Ebbravi i tedeschini, che hanno la “blasonata” Deutsche Banck che è decotta da tempo immemore ed di fatto fallita da tempo (ricordiamo che dal 2014 quando valeva oltre 40 Euro ad azione oggi ne vale poco più di 7 per una splendida performance del -82%. E questo cadavere è ancora in piedi solo grazie alla BCE e a Draghi che adesso viene messo all’angolo proprio dai tedeschi ingrati.
Ad ogni buon conto, è chiaro che la FED ha interesse a salvare Deutsche Bank non certo per fare un piacere ai tedeschi, bensì per non generare un clima di panico e riesumare i fantasmi di una seconda Lehman Brothers. Se il panico sui mercati si propagasse come nel 2008 la crisi travolgerebbe tutti e tutto senza pietà e le Banche Centrali potrebbero non avere a quel punto risorse sufficienti per reagire alla violenza dell’onda d’urto.
Come sempre, staremo a vedere cosa accadrà ma è chiaro che dobbiamo tenere gli occhi ben bene aperti. Tornando al nostro portafoglio, riprendiamo a salire di gran carriera e raggiungiamo un nuovo massimo storico, dopo alcune settimane di consolidamento.
Il nostro NAV infatti vale oggi, ai prezzi correnti di mercato, 117,66 contro i 117,18 di una settimana fa e contro i 117,51 precedente massimo storico registrato verso fine settembre. Il progresso ad oggi incassato è quindi in crescita ed è ora ben sopra il 6,00% da inizio anno e oltre l’8% dai minimi di novembre 2018. La performance cumulata vola verso il 9%, considerando che a febbraio del 2016 il NAV iniziale del portafoglio valeva 107,99 e che contro i 117,66 attuali porta ad un risultato complessivo dell’8,95%.
Portafoglio come di consueto aggiornato nell’apposita sezione.