Etf yield – gli “smart beta” funzionano sì e no


In particolare quelli ad alto dividendo e bassa volatilità sono strumenti particolari che garantiscono meno di quanto promettono. Vanno gestiti in maniera particolare.

Cedole & dividendi

L’industria finanziaria presenta sempre nuovi prodotti, talvolta ammantati da abili strategie di marketing. Ciò avviene soprattutto per fondi ed Etf. Fra questi ultimi una tendenza piuttosto diffusa riguarda i cosiddetti “smart beta”, che applicano una gestione sempre più attiva dei sottostanti e nella correlazione con gli indici cui sono ancorati. Ve ne sono di vari tipi, azionari e obbligazionari, ma anche riferiti al private equity. In particolare una certa attenzione l’hanno destata quelli azionari ad alto dividendo ma a bassa volatilità, matrimonio in teoria perfetto perché dovrebbe consentire di trarre i vantaggi della maggiore costanza di performance delle azioni high dividend, ritenute solitamente meno instabili nelle fasi negative dei mercati. Ma lo sono davvero?

Un primo aspetto da segnalare sta nel fatto che le strategie “smart beta” possono essere diverse fra loro e portare quindi a risultati differenti, il che è logico ma non sempre evidente.

Un secondo tema da valutare: gli “smart beta” comportano spesso un raggruppamento di posizionamenti, con gli operatori concentrati su un minore numero di azioni rispetto alle gestioni tradizionali. Ne deriva che – in presenza di correzioni – la concentrazione si traduce in alleggerimenti polarizzati, con la conseguenza di più forti “downside”. Ma c’è anche dell’altro.

La specialista in asset management statunitense Cerulli Associates ha di recente realizzato uno studio in merito, dal quale esce una fotografia piuttosto deludente di tali Etf.

Inevitabilmente nelle fasi di accelerazione dei mercati gli “smart beta”, non replicando l’indice di riferimento, si caratterizzano per movimenti decorrelati. Secondo Cerrulli nel 2017 per esempio la categoria in genere ha sottoperfomato di circa 550 punti base l’indice Msci Usa e un’analisi storica dimostra che lo stesso è avvenuto in ben cinque degli ultimi dieci anni. Di fronte a un S&P 500 in forte crescita negli ultimi tre anni, con solo un timido avvio di correzione dall’inizio del 2018, gli Etf “alto dividendo bassa volatilità” nello stesso periodo non hanno evidenziato trend equivalenti, seppur si debba considerare che in alcuni casi risentono loro stessi della distribuzione di dividendi. Un confronto, per quanto parzialmente proprio, porta a questi risultati.

Strumento

Performance a 1 anno

Future S&P 500

+11,5%

Etf Ishares Core S&P 500 Ucits (Acc) Replica diretta

+11,1%

Etf iShares Edge S&P 500 Minimum Volatility (Acc.) Bassa volatilità

+7,9%

Etf Invesco S&P500 High Dividend Low Volatility (Dis.) Alti dividendi bassa volatilità

-2,8%

La tipologia ad alto rendimento non premia quindi, così come perde velocità anche quella a bassa volatilità.

Gli “smart beta” inoltre costano in media di più, sebbene la differenza sia tutto sommato marginale rispetto a equivalenti Etf a replica diretta, maggiormente diffusi sul mercato.

C’è infine l’aspetto “appeal”, che però è di poco conto. Il mercato non sempre li ha capiti, forse perché non sufficientemente promossi dalla stessa industria e soprattutto dagli intermediari.

In sintesi ci sono delle caratteristiche alquanto ambigue per questa tipologia di prodotti finanziari, che vanno gestiti non come dei classici Etf in cui si entra e si esce in rapporto all’andamento del sottostante ma come strumenti autonomi con cui costruire piani di accumulo sulle singole fasi di debolezza per poi incassare un flusso di dividendi mediamente significativo. Un modo diverso di operare quindi, di cui occorre tenere conto.