I rapporti con la Cina sono stati a lungo un aspetto marginale della politica estera dell'Italia unitaria.
L'Italia è uno Stato euro-mediterraneo la cui sfera d'interesse politico fuori dall'Europa non va più a sud del Corno d'Africa e ad Est si ferma al Vicino Oriente. L'interesse per la Cina, quindi, fu di natura prevalentemente commerciale. La ripresa dell'imperialismo europeo in Estremo Oriente alla fine dell'Ottocento sollecitò temporanee ambizioni italiane di conquista di alcuni porti cinesi soprattutto per ragioni di prestigio e per creare una base logistica per lo sviluppo dei propri commerci. Il fallimento del tentativo di assumere il controllo del porto di San Mun nel 1899, a causa della resistenza cinese e del mancato appoggio britannico e tedesco, fu però un segnale d'avvertimento che indusse la classe dirigente italiana a ritornare ad una impostazione prevalentemente economica delle relazioni con la Cina. Non a caso l'Italia partecipò per ragioni di prestigio alla spedizione militare europea per reprimere il movimento dei Boxer nel 1900, ma si accontentò di prendere il controllo di una piccolissima concessione territoriale a Tien Tsin, d'insignificante valore politico. L'Italia ebbe un ruolo marginale nelle vicende della Cina nei primi due decenni del Novecento, che videro la fine del potere imperiale e l'avvento della Repubblica, per alcuni disgregata al suo interno in tanti potentati regionali.
La vittoria nella prima guerra mondiale rafforzò il peso dell'Italia sul piano internazionale; non a caso quindi il governo di Roma venne invitato a partecipare alla grande conferenza di Washington alla fine del 1921 e fu Stato firmatario del trattato delle Nove Potenze (6 febbraio 1922) che regolò temporaneamente l'assetto politico ed economico della Cina. Poiché l'Italia non aveva mire di conquista politica in Estremo Oriente né rilevanti interessi e privilegi economici da difendere, essa vide con simpatia l'ascesa del movimento nazionalista cinese Kuomintang nel corso degli anni Venti. Per alcuni intellettuali e politici fascisti vi erano anche somiglianze ed affinità ideologiche fra fascismo italiano e nazionalismo borghese cinese e ciò favorì un'intensificazione dei rapporti italo-cinesi dopo la conquista del potere da parte del Kuomintang. Nel 1928 fu concluso fra i due Paesi un trattato di amicizia e commercio, che favorì lo sviluppo delle esportazioni italiane in Cina. Chiang kai Shek (Jiang Jieshi), leader nazionalista, era favorevole a potenziare i rapporti con Potenze come Italia e Germania, che non avevano interessi e ambizioni politiche in Asia orientale. Così fra la fine degli anni Venti e l'inizio degli anni Trenta l'Italia fornì armi e aerei e inviò tecnici e consulenti per aiutare il governo cinese nei suoi piani di modernizzazione del Paese.
Questa fase felice dei rapporti italo-cinesi finì con lo scoppio della Guerra d'Etiopia e la conseguente decisione di Mussolini di avvicinarsi alla Germania hitleriana e al Giappone. Dal 1936 l'Italia divenne sostenitrice e alleata dell'imperialismo giapponese, desideroso di conquistare vasta parte del territorio cinese, poiché riteneva lo Stato nipponico un utile strumento per indebolire e distrarre Francia e Gran Bretagna dallo scenario geopolitico mediterraneo. Negli anni successivi l'Italia fascista appoggiò la politica giapponese in Estremo Oriente, spalleggiando sul piano diplomatico l'aggressione nipponica contro la Cina nel 1937 e riconoscendo infine nel 1941 quale legittimo governo cinese l'esecutivo collaborazionista sostenuto da Tokyo e guidato da Wang Chin-Wei con sede a Nanchino.
A partire dall'armistizio dell'Italia nel settembre 1943 il governo italiano svolge un ruolo assolutamente marginale nelle vicende politiche dell'Estremo Oriente, che vedranno la sconfitta del Giappone, la guerra civile cinese fra nazionalisti e comunisti e la proclamazione della Repubblica popolare cinese nel 1949. L'Italia dichiara guerra al Giappone nel 1945 e riprende le relazioni diplomatiche con il governo cinese nazionalista guidato da Chiang Kai Shek. Nel 1946 viene inviato in Cina un ambasciatore italiano Sergio Fenoaltea, già politico antifascista del Partito d'Azione, che successivamente diventerà diplomatico di carriera. Con la firma del trattato di pace del febbraio 1947 l'Italia cessa di essere in stato di guerra con la Cina, le cede la concessione di Tien-Tsin e rinuncia a tutti i privilegi derivanti dagli antichi trattati ineguali. Il governo di Roma assiste da semplice spettatore alla guerra civile cinese. La politica estera italiana, tutta incentrata sul tentativo di inserimento nel nascente blocco occidentale guidato da Washington, è fondata sulla collaborazione con gli Stati Uniti, e quindi anche in Estremo Oriente l'Italia non può che allinearsi alle direttive americane di sostegno ai nazionalisti. Ma la diplomazia italiana si dimostra critica verso l'azione degli Stati Uniti e ritiene il partito nazionalista cinese, il Kuomintang, un movimento reazionario e corrotto, inadeguato a guidare la Cina. Da questa valutazione deriva lo sforzo italiano di cercare, quando possibile, una posizione di equidistanza fra le parti in lotta nella guerra civile.
Dopo la vittoria del comunismo cinese, l'Italia, fortemente debitrice verso Washington nella politica europea, si sente obbligata a seguire e ad adottare la linea statunitense del non riconoscimento del nuovo governo comunista cinese. Ma il governo di Roma non è d'accordo con la politica cinese di Washington. Mario Toscano, capo dell'Ufficio studi del Ministero degli Esteri, fa trapelare il dissenso della diplomazia italiana verso Washington in alcuni corsivi anonimi pubblicati all'inizio degli anni Cinquanta. Secondo Toscano, l'epoca del predominio mondiale dell'Europa era finita. Questa egemonia era stata possibile a causa del declino delle civiltà asiatiche; ma il rapporto normale fra europei ed asiatici era stato l'equilibrio, la coesistenza fra livelli di civiltà equivalenti.. La diffusione delle idee politiche di democrazia, nazionalità, socialismo e l'occupazione giapponese di larga parte dei territori dominati dagli europei in Asia orientale, avevano irrimediabilmente indebolito gli imperi coloniali. Secondo Toscano, bisognava prendere atto di ciò realisticamente. Il risveglio indipendentistico dei popoli asiatici era un fatto positivo ed ineluttabile: mettersi contro di esso significava rischiare di essere travolti dalla storia. Inoltre non era detto che i nuovi Stati asiatici dovessero per forza essere antioccidentali. Lo studioso piemontese scrisse nel 1951 che era importante il riconoscimento diplomatico della Repubblica popolare cinese anche per spingere la Cina maoista ad assumere un atteggiamento di equidistanza fra sovietici ed occidentali.
Anche senza rapporti diplomatici, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta il governo di Roma cercò di tenere vivi i rapporti economici fra Italia e Cina sforzandosi di favorire la prosecuzione dei flussi commerciali. In questa politica s'inserì l'ENI che nel 1958 concluse con i cinesi un importante accordo per la vendita di fertilizzanti azotati alla Cina. Nel 1964 il governo di Roma raggiunse un accordo con Pechino per la reciproca apertura di agenzie commerciali nei due Paesi. Negli anni successivi, l'esecutivo del Centro-Sinistra, con Fanfani ministro degli Esteri, s'impegnò in sede ONU per trovare una soluzione alla questione della rappresentanza della Cina popolare . Per il governo di Roma l'assenza della Cina comunista, lo Stato più popoloso del pianeta, dall'ONU indeboliva la legittimità internazionale dell'organizzazione internazionale. L?Italia propose di creare una commissione di studio ad hoc in seno all'ONU per discutere della questione dell'ammissione di Pechino, ma si dovette scontrare con l'opposizione di Washington, che silurò l'iniziativa.
La ripresa dei pieni rapporti diplomatici fra Roma e Pechino nel 1970 e l'ingresso della Cina comunista all'ONU nel 1971 ristabilirono rapporti normali e pieni fra l'Italia e il governo cinese. Paradossalmente fra gli anni Sessanta e Settanta, che furono anche gli anni di una grande ed ossessiva, ma spesso superficiale, attenzione di parte dell'opinione e della cultura italiana verso la Cina comunista, che viveva il drammatico travaglio della rivoluzione culturale, si deteriorarono fortemente le relazioni fra il Partito comunista italiano e lo Stato cinese. Il PCI, che pure si era battuto per la completa normalizzazione dei rapporti italo-cinesi, si schierò a fianco di Mosca nel corso della diatriba ideologica e politica fra Unione Sovietica e Cina popolare e diventò un importante avversario del comunismo cinese in seno al movimento comunista internazionale.
Nei decenni successivi al 1970 i rapporti italo-cinesi si sono normalizzati e fortemente intensificati sul piano economico, politico e culturale.
Certamente l'Italia non ha dimostrato la capacità di altri Paesi europei di radicarsi e impiantarsi nell'economia cinese e paga il suo forte perdurante provincialismo politico e culturale di larga parte delle elite e dell'opinione pubblica. Ma non dobbiamo dimenticare che Italia e Cina sono Stati per i quali è molto facile essere amici. L'Italia, a differenza di altre Potenze occidentali ed europee, non ha interessi ed ambizioni politiche in Asia orientale, ma solo desiderio d'intensificare la propria presenza economica e culturale. Contrariamente alle tesi di molti opinionisti anglo-americani, lo stesso può essere detto riguardo alla politica della Cina, che persegue solo legittimi interessi economici e culturali nell'area euro-mediterranea. L'Italia ha abbandonato da molti decenni una mentalità imperialista e imperiale e coltiva una visione delle relazioni internazionali che presenta numerose similitudini e convergenze con quella cinese: rispetto del diritto internazionale, impegno alla valorizzazione del ruolo delle organizzazioni internazionali, rifiuto di ogni ambizione egemonica sul piano mondiale, rispetto dell'indipendenza degli Stati e del principio della non ingerenza negli affari interni di questi, unico modo per evitare la proliferazione di un'endemica conflittualità internazionale.
Un ostacolo ad un'intensificazione dei rapporti italo-cinesi è la scarsa conoscenza reciproca. In Italia particolarmente grave e dannosa è la debole diffusione della lingua cinese. Un grande ruolo nell'intensificazione dei rapporti fra Italia e Cina può essere svolto dalle comunità cinesi presenti nel nostro Paese, che possono realmente divenire un ponte fra i due popoli. Perlomeno tale è il nostro auspicio. In questo momento storico di rapido mutamento, gli italiani non devono avere paura dei cinesi e degli altri popoli asiatici, ma devono ritrovare un spirito di apertura e dialogo e l'antica intraprendenza: in tal senso Marco Polo e Matteo Ricci rimangono esempi da seguire.
Prof. Luciano Monzali
Professore associato di Storia delle Relazioni Internazionali
Università degli studi di Bari