Tra le domande alle quali l'economia dovrebbe sapere dare una risposta ce n'è una che la globalizzazione finanziaria ha reso sempre più importante: che cosa determina il tasso di cambio tra le valute ? C'è però un problema: ancora oggi la risposta più sincera a questa semplice domanda è che, agli occhi degli economisti, le variazioni del tasso di cambio sono del tutto casuali. L'idea che a fare testa o croce sia la miglior strategia previsiva disponibile è un'ammissione scioccante per una scienza sociale. Merita dunque di essere approfondita.
L'imperfezione delle teorie macroeconomiche disponibli per dare indicazioni previsive sulle variazioni del cambio emerge chiaramente con un esempio. Da un paio di anni a questa parte il valore dell'euro nei confronti del dollaro è cresciuto marcatamente, tanto che oggi ci vuole circa un dollaro e venti centesimi per un euro. La debolezza del dollaro è oggi attribuita al persistente deficit della bilancia dei pagamenti degli USA. Un deficit nei conti con l'estero degli USA confrontabile per grandezza con quello di oggi era tuttavia già presente nel 1999 – 2000. Il dollaro era debole anche allora ? No, il dollaro era tanto forte che allora bastavano 0.85 dollari per un euro. In quel periodo gli esperti concordavano nell'indicare nell'eccezionale crescita della produttività nell'economia americana la causa principale dell'apprezzamento del dollaro.
Qui sta il punto: se l'economia è una disciplina utile, dovrebbe essere in grado, prima di tutto, di fornire una lista di variabili il cui andamento sia associato sistematicamente alle variazioni dei tassi di cambio. L'esempio del cambio euro – dollaro suggerisce invece la sgradevole sensazione che gli economisti tirino fuori dal cassetto una spiegazione diversa – in termini di bilancia dei pagamenti o di crescita della produttività – solo dopo avere osservato quello che deve essere spiegato. Dato che del senno di poi sono piene le fosse forse c'è davvero qualcoa che non funziona nelle teorie macroeconomiche che dovrebbero aiutarci a prevedere l'andamento del tasso di cambio. E proprio così, e non da oggi. Negli anni Settanta, l'exchange rate economics era una disciplina à la page a cui si dedicavano con successo i migliori economisti del mondo (tra cui il recentemente scomparso Rudi Dornbush). Grazie alle risorse intellettuali dedicate allo scopo, c'era un'abbondanza di modelli empirici per la spiegazione dei tassi di cambio. Si era appena scoperto che, essendo il tasso di cambio il prezzo di un'attività finanziaria, una soluzione al problema di prevederne l'andamento andava cerca sui mercati finanziari. Su questa base, la lista di variabili che si riteneva potessero influenzare l'andamento del cambio tra due valute includeva le differenze nei tassi di interesse e nei tassi di crescita del PIL e l'andamento della bilancia dei pagamenti tra due paesi. Sulla base delle teorie esistenti e una volta in possesso di stime affidabili per il valore futuro delle variabili macroeconomiche sopraelencate, gli economisti accademici, così come i loro colleghi delle Banche Centrali e delle banche di investimento, potevano formulare previsioni sull'andamento del cambio tra due valute.
Proprio in quel periodo, però, due giovani economisti della FED, Richard Meese e Ken Rogoff, scrissero un articolo in cui si trovava che nessun modello previsivo basato sulle varie combinazioni delle variabili macroeconomiche riusciva a produrre previsioni delle variazioni del cambio che mettessero al riparo da errori sistematici di previsione. I risultati di Meese e Rogoff mostravano che l'ipotesi di evoluzione casuale del tasso di cambio dava luogo a previsioni che nessun modello "strutturale", cioè basato sulla teoria macroeconomica, era in grado di battere. Una conclusione così radicale non fu inizialmente ben accolta dalla professione. Come racconta Rogoff, oggi ad Harvard, l'articolo fu respinto dall'American Economic Review con una ramanzina dell'editor (Robert Clower) che raccomandava ai due economisti di dedicarsi a ricerche meno nichiliste. Nel 1983, tuttavia, l'articolo uscì, comunque, sul "Journal of International Economics", divenendo rapidamente un classico dell'argomento, un articolo con i risultati del quale qualunque exchange rate economist ha dovuto misurarsi da allora in poi. Perché l'economia fallisca così miseramente nel prevedere l'andamento dei tassi di cambio è difficile a dirsi in poche parole. Negli anni Settanta ad esempio era difficile prevedere l'andamento dei tassi di interesse che, a causa dell'inflazione elevata e variabile, subivano ampie oscillazioni in brevi periodi di tempo. Quindi la responsabilità maggiore per gli errori di previsione non era tanto nelle teorie macroeconomiche quanto nell'elevata volatilità dell'ambiente macroeconomico. Oggi, l'ambiente macroeconomico è meno turbolento, ma, come affermato da Rogoff in un suo recente Web Essay sul sito della rivista "Economic Policy", il mistero dei tassi di cambio è ancora vivo e vegeto. Una possibilità, esplorata da Lucio Sarno di Warwick, è che la relazione tra le variabili macroeconomiche e il tasso di cambio sia più complicata (in gergo "non lineare) di quanto solitamente ritenuto. L'idea dell'economista Richard Lyons di Berkeley è che, invece, la macroeconomia debba abbandonare l'ipotesi che le informazioni relative ai fondamentali macroeconomici sono condivise da tutti gli operatori del mercato dei cambi. Gli studi di Lyons hanno mostrato che uno studio attento delle eterogeneità informative degli agenti economici può aiutare a sconfiggere il paradosso di Meese e Rogoff.
In ogni caso sarà comunque importante tenere a mente il mistero irrisolto dei tassi di cambio. Per una buona ragione: perché è un modo semplice per ricordare alla professione che ci sono ancora tanti fenomeni economici di cui non sappiamo rendere conto in modo soddisfacente. Per ora, per fare previsioni sensate sull'andamento dei mercati valutari, non c'è ancora una solida alternativa all'onesto nichilismo di Meese e Rogoff.
(articolo tratta da Il sole 24 Ore del 14 marzo a firma di Francesco Daveri)
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